1.Nome, cognome, ruolo.
Maria Rita Sechi, Responsabile della Protezione dei Dati (DPO) della Fondazione Policlinico Universitario Campus Bio-Medico di Roma.
2. Quali sono le supereroine a cui ti sei ispirata/ a cui ti ispiri?
Io vengo da una terra, la Sardegna, dove da sempre esiste il matriarcato e la donna (sa domina) governa la casa (sa domo), la famiglia e gli “affari”, godendo di grande considerazione sociale. Quando l’uomo non c’era, per esempio per via della transumanza o perché bandito – spesso per tutta la vita – era la donna ad occuparsi di ogni cosa. Vite ordinarie di donne forti, autorevoli, saldamente ancorate in valori tradizionali come la famiglia, l’amicizia, il coraggio, la dignità, l’onore, la giustizia e il rispetto della parola data. Insomma delle eroine ante litteram mi verrebbe da dire. Non è un caso che in Sardegna ci siano state donne come Eleonora D’Arborea sovrana (Giudicessa) del Regno di Arborea e autrice della Carta de Logu, una delle statuizioni più importanti del 1300, o come Grazia Deledda, prima – e ancora unica – donna italiana a vincere il premio Nobel per la letteratura.
Tuttavia, nei momenti più difficili penso alle due Sante di cui porto i nomi: Maria, Madre di Dio e Madre della Chiesa, donna di Unità e Pace; e Rita da Cascia, moglie, madre e monaca – nel 1300 – capace di cose impossibili perché donna di Speranza.
3. Puoi raccontarci la tua esperienza come donna nel settore della protezione dei dati e delle nuove tecnologie (di seguito “settore”)?
Io ho iniziato da una prospettiva più teorica e di ricerca. Ho fatto una tesi di Dottorato proprio sull’art. 8 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo e ho continuato a studiare i Diritti Fondamentali e, in seguito, ad insegnare all’Università. Ad un certo punto le vicende della vita mi hanno portato a ridurre l’attività accademica e a lavorare nel settore sanitario occupandomi di temi molto lontani dai miei interessi. Sono stati anni lunghi e difficili professionalmente dove, spesso, ho pensato di andare via, ma di cui oggi ne rivaluto l’importanza. Mi hanno, infatti, consentito di comprendere il core business di un ospedale, le dinamiche organizzative e personali: tutte conoscenze a mio parere indispensabili per un DPO. E quando l’allora Direttore Generale, anche lei una donna di nome Maria, ha dovuto strutturare il tema della protezione dei dati lavorando prima al Dossier Sanitario Elettronico e poi allo tsunami del GDPR mi ha scelto tra diversi candidati sia interni che esterni all’azienda. Ed ancora resisto…
4. Come vedi il ruolo delle donne nel settore?
Penso che sia un ruolo in continua crescita sia per numeri di donne impegnate che per impatto. All’inizio la protezione dei dati era per lo più percepita come uno dei tanti adempimenti ex lege, pezzi di carta da tenere ben conservati ma privi di alcun valore sostanziale e tanto meno strategico, per la vita e lo sviluppo delle aziende. Quindi quale miglior lavoro per una donna?
Oggi sempre di più ci si sta rendendo conto dell’urgenza di ripensare i termini della questione. La protezione dei dati permea l’intera vita di un’azienda che progetta il suo business e la sua crescita proprio a partire dai dati. Le donne con la loro innata capacità di compaginare il rigore nell’interpretazione delle norme con la concretezza di trovare soluzioni adatte alle specificità del settore nel quale le norme si devono applicare, riescono a rendere al meglio lo spirito e il valore della protezione dei dati. Questo perché la donna è sempre orientata all’umano e quindi alla vita.
5. Qual è il valore della diversità nella leadership?
La filosofa Edith Stein, considerando la differenza tra uomo e donna, ha evidenziato che l’uomo è orientato alle cose, mentre la donna alla persona. Le cose, quindi, interessano la donna, in quanto orientate all’umano. Questo rende la donna molto concreta e la porta a leggere in maniera differente tempi, modalità, situazioni. Perché per la donna quello che conta è la vita, quindi le persone. Anche rispetto alla legge, la donna la vede come funzionale alla persona e per questo ha un profondo senso di giustizia a scapito, magari, del formalismo e della burocrazia.
Quando penso alla diversità della donna rispetto all’uomo mi piace sempre evidenziarne non la rivendicazione di ciò che spetta a ciascuno, ma la complementarietà di entrambi. E quanto dalla dialettica e dal confronto tra il loro diverso modo di pensare, di agire e di esprimersi si possa arrivare a soluzioni realmente giuste.
Quindi se la donna rimane fedele alla sua specificità potrà creare relazioni davvero efficaci e vincenti perché capaci della pienezza della sintesi della prospettiva maschile e di quella femminile di leggere la realtà.
6. Ritieni che ci sia una gender gap nel settore? Hai mai dovuto affrontare stereotipi di genere o pregiudizi durante il tuo lavoro?
Se per gender gap intendiamo che nel settore ci sono meno donne che uomini, mi sembra che sia l’esatto contrario. Le statistiche dimostrano che siamo numericamente di più, che studiamo di più – molto spesso con risultati migliori – e che viviamo più a lungo degli uomini. Se, poi, questo si traduca anche in una rappresentanza adeguata a livello di management o top management e di retribuzione, forse ancora c’è parecchio da fare. Sicuramente servirebbero leggi e politiche sociali capaci di una vera promozione della donna e della sua specificità come la spiegavo prima.
Sul tema degli stereotipi penso che siamo noi stesse a crearli ponendoci verso il mondo del lavoro con una modalità al maschile e non al femminile, quindi con una modalità che non ci appartiene e che non è nostra.
Quante volte abbiamo sentito donne dire che è peggio avere un capo femmina di un capo maschio? E che il capo maschio le comprende meglio del capo femmina? Sembra un ossimoro, ma se ci pensiamo altro non è che la conseguenza del fatto che viviamo nell’ignoranza sulla differenza tra maschile e femminile di cui parlavo prima. E questo ci porta molto spesso a omologarci da sole a un prototipo femminile che, in realtà, ha molto di maschile o che rispecchia come gli uomini ci vedono. E siccome è un prototipo che non ci appartiene, ci frustra e ci fa sentire sempre scontente e in affanno.
Fino a quando noi ci comporteremo da uomini saremo destinate a perdere perché non potremo mai fare l’uomo meglio degli uomini.
7. Come può l’empowerment femminile influenzare positivamente il settore?
Innanzitutto, per parlare di empowerment femminile, serve che ognuna di noi approfondisca il significato del suo essere femminile per riuscire a cambiare atteggiamento. Soltanto dopo che avremo fatto pace con la nostra femminilità, potremo sprigionare la creatività che ci appartiene realmente. Non ci sono stereotipi nei quali dobbiamo rientrare, ma ognuna di noi deve costruire il proprio progetto lavorativo, qualunque sia il ruolo che ricopre, attorno a sé e considerando chi è.
Quando Avivah Wittenberg-Cox nel suo libro Womenomics in azienda afferma, con coraggio, che non sono i figli a impedire l’avanzamento di carriera delle donne quanto piuttosto il modo arcaico in cui continuano ad essere gestiti nelle imprese i cicli di carriera del personale, sta evidenziando che serve un vero cambiamento nell’attuale organizzazione del lavoro – per lo più di stampo tayloristico – perché non tiene conto dei cicli di vita della donna, ma solo di quelli dell’uomo. Ci sta, anche, ricordando che il problema non siamo noi e il nostro desiderio di avere e curare una famiglia, ma un sistema sbagliato e sempre più antieconomico visto che, come l’autrice dimostra, le aziende guidate da donne aumentano più velocemente il loro fatturato e chiudono sempre in attivo. Quindi, il vero cambiamento, è quello che noi potremo influenzare superando il condizionamento psicologico che abbiamo subito fino ad oggi e smettendo di sentirci inadempienti e inadeguate rispetto a un sistema sbagliato. E senza mai dimenticare che le donne “possono essere considerate solo una per una”.
8. Quali iniziative ritieni essere utili per aumentare la partecipazione delle donne nel settore? Pensi che la data protection e le nuove tecnologie possano essere utilizzate a questo fine?
Vorrei rispondere riprendendo il pensiero del Prof. Stefano Zamagni. Come l’economista ha osservato l’ingresso delle nuove tecnologie nel processo produttivo ha profondamente modificato le economie di mercato di tipo capitalistico. La più grande novità apportata dalle nuove tecnologie, che hanno il loro postulato proprio nella protezione dei dati, è di aver avvicinato il luogo di lavoro al luogo di vita familiare rendendo di fatto scarsamente produttiva l’organizzazione tayloristica del lavoro. Quest’ultima è stata considerata, fin dagli inizi del 1800, estremamente penalizzante per la condizione della donna e il suo inserimento nel mondo del lavoro.
Questo nuovo assetto delle economie post-moderne determina la necessità di inserire nel mondo del lavoro principi e valori ben precisi come l’equità presupposto necessario per garantire e alimentare la fiducia nell’azienda e la reciprocità indispensabile per un maggior coinvolgimento delle persone nel fissare obiettivi operativi e nel raggiungimento dei risultati. Ma in particolare quello che oggi serve è un bilanciamento tra motivazioni intrinseche, tipiche dell’uomo, e motivazioni estrinseche prevalenti nella donna.
Le nuove tecnologie sempre di più richiedono la simultanea presenza di profili professionali diversi, portando a organizzare il lavoro in team multidisciplinari. Tutte condizioni estremamente favorevoli per la donna perché è naturalmente orientata alla competizione cooperativa. Non credo quindi che ci siano particolari azioni da fare, se non lasciar fare alle cose il loro corso per veder crescere la partecipazione delle donne.
Il settore della protezione dei dati penso sia un bell’esempio di confronto continuo tra prospettive diverse, giuridica, tecnologica, organizzativa, e di necessità di una sintesi per la risoluzione dei problemi che deve essere il frutto di una gestazione tra analisi del contesto e bilanciamento di interessi.
9. Quali consigli daresti alle giovani donne che vogliono intraprendere una carriera nel settore?
Il mio consiglio è innanzitutto di curare molto la preparazione professionale e anche le letture di filosofia e di buona letteratura. Il nostro è un ambito molto tecnico, ma che ha come obiettivo l’uomo, la tutela dei suoi diritti e delle sue libertà fondamentali. E poi di non disdegnare la “gavetta” così come i momenti in cui si troveranno a svolgere attività professionali distanti dalle loro propensioni e dai loro interessi. A mio parere non esistono le “carriere lineari”, ma “alti e bassi” da affrontare sempre come sprone e di cui fare tesoro. Ma il mio consiglio più grande è di non sacrificare mai gli affetti e i progetti importanti della vita, quelli per così dire “esistenziali”, in nome del lavoro. Il lavoro non è mai un fine, ma sempre un mezzo. È lo strumento che ci aiuta a crescere umanamente e professionalmente cercando di diventare persone migliori; è la possibilità concreta che abbiamo di servire gli altri, specialmente chi ha più bisogno, vivendo pienamente la nostra socialità ed è la modalità operativa a nostra disposizione per agire sulla società e rendere sempre più bello il mondo in cui viviamo e che lasceremo ai nostri figli.